LAVORO DA REMOTO

16 febbraio 2022

Il mio lavoro segue il percorso del sole sulla terra. Immagino un sentiero di luce, il sole sempre più alto sul mondo, che a poco a poco, ora dopo ora, mi porta nelle vite dei miei studenti.

La mia mattina mi porta Liza dall’Australia. Lì è sera. Alle sue spalle una grande finestra sul mare. La luce lentamente si attenua mentre il vento dell’Oceano tra Australia e Antartide scuote le cime degli alberi.
Liza mi dice che nel suo giardino è arrivato un nuovo ospite, “un rettilo nuovo, un water dragon” mi dice e mi manda la foto di un’enorme lucertola che mangia una fetta di banana. Si unisce al carpet snake, al green tree snake e naturalmente ai goanna, a cui suo marito butta le uova sode nel giardino sul retro della casa.
Liza questa settimana stata a trovare Dorothy, mi racconta, una vecchia amica di sua madre che ha compiuto 102 anni, e le ha portato dei muffin. Dorothy ha voluto a tutti i costi preparare il caffè da sola e poi, insieme, hanno letto una vecchia lettera del padre di Liza. Anzi, Dorothy ha letto la lettera e ha raccontato di quando lei e i genitori di Liza erano giovani. Era molto contenta. Alla fine dell’ora è quasi calato il buio ma le cicale cantano ancora nel crepuscolo australe.

Il sole continua la sua strada e dopo pranzo ecco Julie, alle otto, ora di Washington. Giovane avvocatessa, laureata ad Harvard, padre lituano, madre russa, è nata in Israele ma parla con il leggero accento romano di quando ha fatto il liceo in Italia, prima di andare a vivere negli Stati Uniti.
E’ stanca. “Lavoro troppo!” mi dice. “Troppo cosa vuol dire?” le chiedo. “Eh, sto diventando troppo americana, lavoro tipo dodici ore al giorno!” Però ieri sera ha fatto una corsa lì intorno. “E’ bellissimo correre intorno al Congresso e Capitol Hill! Ho fatto tipo almeno quattro, cinque chilometri!”
“Hai portato anche Comet?” le chiedo. “No, Comet era a scuola, perché ieri hanno fatto dei giochi per San Valentino” mi dice ridendo. Comet è il suo cane.

Alle tre del mio pomeriggio di solito arriva Mr.Wood. Mr. Wood è tra i miei preferiti. Vive a Londra, ma di lui non so altro. So che vive con dei “famigliari” ma il resto della sua vita rimane un mistero. Durante le prime lezioni, lui seduto su una sedia di legno, lo sfondo alle sue spalle una stanza spoglia e un paio di scaffali disadorni. Il mio sguardo non sapeva dove posarsi mentre mi parlava di filosofi italiani che io non avevo mai sentito nominare e mi citava Sciascia o Pasolini.
“Suono il liuto arabo”  vengo a sapere quando gli chiedo che musica preferisce. “Il liuto arabo?” gli chiedo, cercando di rimanere impassibilmente inglese. “Sì, prendo lezioni sull’Internet dal mio maestro iracheno”. Poi Mr.Wood sparisce per mesi. Si ripresenta in un’altra stanza:  alle sue spalle ora c’è una magnifica libreria di legno scuro, una finestra in stile gotico vittoriano e al centro del monitor c’è lui, magrissimo e pallidissimo, seduto in una poltrona di pelle borchiata. Tossisce e mi dice che ha dei problemi alla schiena. Finiamo la lezione un po’ a fatica, parliamo del legno utilizzato per fabbricare gli strumenti musicali e, tutto contento, si decide a prendere il liuto arabo. L’ultima immagine che ho di Mr.Wood è lui, pallidissimo, seduto di traverso sulla poltrona in stile Chesterfield mentre suona il liuto.

Sulle cinque ecco Linda, appena sveglia, da Calgary, Canada. “Che tempo fa a Calgary?” le chiedo. “E’ molto freddo questa mattina, mi dice, fa 31 gradi sotto zero!” La guardo un po’ smarrita, anche se, ovviamente, so che in Canada fa freddo: “Ma cosa vi mettete per uscire con 31 gradi?” “Ah, ma io non vado fuori!” mi dice. E poi sta ristrutturando la cucina e deve aspettare Émile. Dopo aver un po’ cincischiato sulle parole giuste da usare, scopro che Émile è muratore, falegname, piastrellista, idraulico, elettricista. “Ma questo Émile è bravissimo, sa fare tutto!” le dico! “Oh sì, mi dice lei, senza di lui non posso fare la cucina!” “Ma è canadese Émile?” “Sì, ma viene da Croatia, anche se credo che sia nato qui.” E mentre mi immagino il lungo cammino di Émile, che, chissà perché nella mia testa indossa una camicia a quadri rossi da boscaiolo canadese, percorre le strade d’Europa fino alla costa atlantica, per poi imbarcarsi sul vapore che lo porta in Canada, cominciamo a parlare di Jugoslavia e del mio viaggio della maturità attraverso Croazia, Serbia e Macedonia fino in Grecia.

L’ultima della giornata è Tamar, da Israele. E’ al telefono, in videochiamata. Mi ha prenotato una lezione di prova ma ha fatto tardi al lavoro e si scusa ma non è arrivata in tempo a casa. Così facciamo lezione mentre guida tra Tel Aviv e Gerusalemme. Dal finestrino vedo le macchine che le sfrecciano a fianco. “Tamar, mi fai venire l’ansia!!” le dico, “non puoi fermarti un attimo?” “No, no, non preoccuparti! Sono attenta!” mi dice con un grande sorriso, “e poi sono abituata, tutti i giorni io guido due ore alla mattina e due ore alla sera per andare a lavorare”. “Cosa fai !!?? Guidi tutti i giorni per quattro ore?” “Sì, da sette anni! Ma tra due anni voglio vivere in Italia, mi piace tanto Italia!” “E perché ti piace Italia?” le chiedo mentre insieme sfrecciamo sull’autostrada tra centinaia di persone di ritorno dal lavoro verso le loro case israeliane, “perché mi piace tutto di Italia, la gente, la lingua, mangiare, vivere in Italia” mi dice sorridendo a trentadue denti. E quando il più giovane dei suoi tre figli compie diciotto anni lei vuole venire qui a vivere. Ha letto dodici volte “Mangia, prega, ama” mi dice, ma solo adesso ha capito il libro. “Hai letto il libro?” mi chiede, “No, mi spiace” dico. “Molto interessante, dice, ho capito tante cose con libro”. Alla fine arriviamo a Gerusalemme sane e salve.

L’UOMO RAGNO NERO

28 Maggio 2018

 MAMO

Ho a che fare quotidianamente con ragazzi immigrati perché insegno loro l’italiano.
Sono richiedenti asilo, rifugiati, in attesa di permesso di soggiorno, o se volete, a seconda delle ideologie: migranti, clandestini, o secondo la terminologia francese: sans papier.
Sono i ragazzi, perché perlopiù sono ragazzi, di solito tra i 18 anni e i 25, che vediamo in televisione, nei telegiornali, mentre vengono avvistati da qualche motovedetta, salvati, tirati su dal mare, nudi con il solo salvagente addosso, o mentre salgono la scaletta di qualche nave con addosso una maglietta e un paio di calzoncini. Sono entrati nelle acque territoriali italiane con gommoni, pescherecci, barconi e portati sulle coste italiane da organizzazioni umanitarie o dalla nostra Marina. Di solito sono neri, o quantomeno colorati in varia misura: arrivano da paesi africani soprattutto, ma anche dal Pakistan, dall’Afghanistan, dal Bangla Desh.
Arrivano da paesi con cui probabilmente non avrei mai avuto nulla a che fare nella mia vita se non fossi un’ insegnante, perché chi si sognerebbe di andare in viaggio, per turismo, in uno dei paesi più poveri del mondo? In Nigeria, o in Costa d’Avorio o in Burkina Faso?
Eppure me li ritrovo in classe ogni mattina, tirati a lustro dopo qualche mese dal loro salvataggio, a volte vestiti come un ragazzo europeo, jeans, maglietta e giubbotto, o a volte, vestiti come guappi: occhiali da sole e cappello anche al chiuso, collanone di simil oro al collo, cuffione in testa e abbinamenti di colori sgargianti, giallo, rosso, verde pisello per magliette, scarpe o pantaloni, (soprattutto una passione per le scarpe colorate) che alle nostre latitudini grigiastre sono un po’ un pugno nell’occhio. Quando poi, in classe, l’apparente guappo, si toglie occhiali a specchio e cappello da gangsta, di solito sfoggia un sorriso infantile e contagioso e un’inaspettata autoironia, lontanissima dal suo aspetto cattivo.
Sono vitali, vivaci, curiosi di questo paese che li ospita e di cui a volte non capiscono molto. Ma sono qui e tanto basta. Sono rispettosi e riconoscenti all’insegnante come forse qui da noi si usava un centinaio di anni fa. A volte non sono neanche mai andati a scuola nel loro paese, sono analfabeti, e hanno quindi verso l’insegnante il rispetto e la deferenza di chi riconosce di non sapere nulla verso chi, si suppone invece, che sappia.
Cercano di adattarsi alle nostre insolite abitudini con una saggezza remota, che si percepisce trasmessa, consolidata e insegnata in una lunga e indiscussa pratica di educazione famigliare e che si manifesta nel rispetto, comunque e sempre per chi ne sa più di te, per chi ti ospita, per chi ti insegna, per chi ti aiuta, e sempre e soprattutto per la vita, da vivere sempre e comunque, senza tentennamenti, elucubrazioni o troppe considerazioni.

Del resto, chi di noi attraverserebbe il deserto per giorni e giorni, aggrappato al telaio di un camion, senza furgone di scorta attrezzato con viveri, tende, cucina da campo e servizi, senza assicurazione infortuni e spese mediche stipulata preventivamente in agenzia? Chi si metterebbe su un gommone mezzo sgonfio per attraversare non dico il Mediterraneo, ma neanche una piccola baia, tra la Grotta Azzurra e la Grotta dei Pirati in qualche località turistica senza giubbotto salvagente omologato, pistola lanciarazzi e cima galleggiante? Chi partirebbe, come una cosa che comunque va fatta, per andare a cercare un futuro diverso, forse, ma non è detto, migliore, per se e per la propria famiglia, sapendo di mettere in pericolo la propria vita ma sapendo, pur senza averne la consapevolezza ragionata, che comunque la vita va preservata, difesa e vissuta al meglio delle proprie possibilità? Nessuno di noi lo farebbe. Lo sappiamo benissimo.
Eppure loro l’hanno fatto.
A 17 anni magari, quando da noi il massimo dell’avventura all’estero è prendere l’aereo con l’accompagnatore per andare a fare un corso di lingua a Eastbourne o una vacanza a Ibiza con gli amici, qualcuno di loro ha fatto su una borsa con dentro un paio di magliette, ha salutato la famiglia (se ancora ce l’ha) ed è partito per un qualche posto tra il suo villaggio e le nostre città su un camion con in tasca un indirizzo o il numero di telefono di un conoscente che vive in Europa.

A tutto questo ho pensato questa mattina quando ho guardato il video di questo uomo ragno nero che si arrampica con la destrezza di un acrobata sui quattro piani di un condominio della periferia di Parigi mentre in alto a destra del fotogramma oscilla un bambino di tre o quattro anni attaccato con tutte le sue forze alla ringhiera di un terrazzo.
Allora, immaginiamoci la scena: io passo per caso, mentre, chessò, sto andando a fare la spesa al mercato, vedo un bambino che svolazza appeso a una ringhiera quattro piani sopra di me, e invece di unirmi alla folla di persone che urla, si dispera, si mette le mani nei capelli, fotografa o fa filmati della scena già con l’idea di metterli su facebook o su you tube, senza pensarci due volte, butto un’occhiata là in alto, attraverso la strada e, senza pensare per un momento che potrei cadere e ammazzarmi, mi arrampico come un gatto per una quindicina di metri, prendo il bambino per un braccio e lo deposito, sano e salvo, sul suo terrazzino.
Il video dura 32 secondi in tutto.
Chi l’ha girato è comprensibilmente stato preso alla sprovvista perché non ha neanche inquadrato il momento in cui Mamodou Gassama, 22 anni, maliano, l’uomo ragno nero, si è lanciato nella sua impresa con un salto afferrando il bordo del terrazzino del primo piano. Poi è un susseguirsi di urla, di incitamenti, di applausi fino al ventesimo secondo. Gli ultimi dieci secondi sono in silenzio. Forse qualcosa non ha semplicemente funzionato nella registrazione degli ultimi momenti del salvataggio, forse chi filmava la scena ha inavvertitamente abbassato l’audio. E così gli ultimi secondi sono tutti concentrati, senza il rumore di fondo dello sbalordimento o dell’eccitazione dei presenti, sulla solennità dell’impresa di questo ragazzo che si è semplicemente precipitato senza pensare a nulla in soccorso della vita, pura vita che si dibatteva nella forma di un bambino sospeso nel vuoto, in quell’attimo che poteva essere l’ultimo su questa terra, in un mattino di primavera a Parigi, Francia, Europa.

AGOSTO

3 agosto 2016

Azzurro. Il pomeriggio è troppo azzurro e lungo per me. Mi accorgo di non avere più risorse. E basta.

Agosto sospeso e immobile tra l’inizio e fine dell’estate, una calma piatta di calore, di lentezza, di fermo immagine.

Agosto da bambina mentre attendo il ritorno dalle vacanze della mia amichetta del cuore.

E giro per la casa in semi ombra, le finestre aperte sulle tapparelle abbassate, la radio dalla cucina in sottofondo, esco in terrazza, la parte di terrazza dove il sole arriva solo verso sera, le cicale senza tregua dagli alberi delle mura, e mi fermo accucciata a guardare gli strani percorsi delle formiche sulle piastrelle rosse. Rientro in casa, guardo in corridoio, dietro la porta, sul lungo tavolo dove finiscono i giornali vecchi, le riviste già sfogliate, i Selezione del Reader’s Digest, i vecchi libri di scuola, cerco qualche giornalino già letto. Questo. L’ho già letto ma forse non me lo ricordo.

Agosto da ragazzina, sdraiata sul divano, le gambe nude sulla spalliera, il sole che filtra tra le veneziane e gira lentamente da una finestra all’altra. Pomeriggi a leggere. “La storia” della Morante. Non finiva mai. Leggevo fino ad avere il mal di testa. La notte sognavo Useppe, la guerra, i soldati tedeschi. E poi “La ragazza di Bube” e “Metello” e “Il gabbiano Jonathan Livingstone”.

Ma tutte queste passioni, mi chiedevo, ma tutto questo patire. Qualcosa mi corrispondeva, qualcosa lo leggevo ma non lo capivo. Cercavo un senso a tutto. Cercavo un nome per tante cose.

Agosto al mare con le amiche. Il bikini azzurro per tutte e tre. Solo a una stava bene. L’altra era troppo grassa e io ero la via di mezzo. Senza parole, impacciata, sempre in carne viva come un fico sbucciato. L’appartamento pieno di zanzare con la madre e il fratello grande e strano della mia amica. E la sera con il gelato sulla via principale. Occhiate e risatine e discorsi e voglia di essere da un’altra parte.

Ma adoravo il mare, adoravo la sabbia, adoravo il respiro corto uscita dall’acqua e il sole che bruciava sulla pelle bagnata e sfolgorava tra le palpebre chiuse. E alla sera adoravo i negozi del mare: vecchie rivendite di paese ringiovanite dagli espositori sul marciapiede pieni di secchielli, palette, set di formine, retine ripiene di giochi da spiaggia colorati, e creme solari e sandali e zoccoli e giornali in tedesco. Odore di gomma, di carta, profumo di cocco a ondate soffiati dal ventilatore sul vecchio bancone da negozio di paese.

Agosto e il primo viaggio con gli amici. La Grecia lontanissima e sognata da anni. La Jugoslavia al di là del confine con i negozi con le vetrine vuote, le cameriere dei bar assenti e sgarbate, le file di camion turchi vicino al confine e la macchina che sobbalzava sui lastroni di cemento per chilometri e chilometri. E finalmente l’Acropoli accecante tra gli ulivi, i campeggi polverosi e assolati, la sorpresa dello stretto di Corinto, i leoni di Micene e infine, nel viaggio di ritorno, l’assoluto stupore delle Meteore e degli eremiti tra le rocce: uomini seminudi, in piedi su una sporgenza della montagna grigia. Guardavano il vuoto, guardavano il cielo, le montagne, la loro vita su una cengia, muti, lontanissimi, indecifrabili nell’aria immobile, calda, sospesa di quell’Agosto lontano.

 

 

ALFABETI

5 febbraio 2013

Aminata non capisce niente ed è il mio tormento e la mia spina nel fianco. Oltre che la mia spina nel fianco è ormai anche la mia sfida personale. Salamata invece alterna guizzi di intelligenza negli occhi miti e acquosi, operose e pazienti opere calligrafiche e brevi cadute ortografiche.
Rheena invece è già andata a scuola, però scrive solo con dei magnifici arabeschi hindi che tende a riportare anche nel nostro alfabeto e non sa una parola di italiano. Ho capito solo dopo qualche lezione che per dire sì ondeggia leggera la testa sul collo a destra e sinistra, sorriso bianchissimo e luccicante sguardo di carbone come nei film di Bollywood. Zhora parla un po’ di italiano, come tutti gli arabi confonde e ed i, o ed u, ma in quattro e quattr’otto ha capito che i suoni si possono trascrivere in forma di lettera e le lettere in forma di parola e procede spedita fino a quando per un nonnulla si emoziona, arrossisce, si inceppa e comincia a calcare la matita in piccoli solchi sul quaderno.
Alimatou arriva con la bambina legata sulla schiena in uno scialle colorato. La spoglia, la fa cadere, la allatta, le soffia il naso, risponde a uno dei due telefoni che mette sul tavolo accanto a fazzoletti, salviettine, fogli accartocciati. Le ho detto di lasciare la bambina alla baby sitter ma la cosa funziona una volta su tre.
Kadir è il mio orgoglio. Fosse andato a scuola sarebbe sicuramente un qualche premio nobel. Arriva dal Ghana, ma ci ha messo una ventina d’anni ad arrivare quassù, passando per il Burkina Faso, un lavoro da tessitore in Nigeria, la guida dei trattori e una fabbrica in Libia, il Mediterraneo, i campi di pomodori del sud, le case occupate tra i topi lunghi così e un lavoro da muratore a Napoli per finire in mobilità in qualche ditta qui al Nord e saltuari lavori da bidello.
Dove fai il bidello, in che scuola? – gli chiedo. Non si ricorda il nome della scuola, ma, pronto, estrae da una tasca del giaccone (nessuno si toglie mai la giacca o il cappotto in classe), un foglio con l’intestazione di una scuola media. Non certo per leggerlo. Me lo consegna perché lo legga io.
Kadir, come tutti qui, non sa né leggere né scrivere.

GIARDINO TRISTISSIMO

5 febbraio 2013

Lui, scendendo le scale, si fermava quasi sempre un attimo sul pianerottolo tra una rampa e l’altra, un po’ ad aspettare lei che chiudeva la porta blindata con tutti quei giri di chiave, – che stress le porte blindate, una volta, nella vecchia casa, accostavo solo la porta e via, ed era pure a vetri -, e un po’ a guardare dall’alto, attraverso le finestre delle scale, il giardino condominiale lì sotto.

“Tutto secco”, lo si sentiva sussurrare, “giardino tristissimo”.
Lei, scendendo a sua volta, a volte afferrava solo le esse di secco e tristissimo, e sorrideva alzando lo sguardo dalle chiavi, soffermandosi un attimo sul primo gradino, guardandolo di spalle dall’alto, sospeso e quasi mesto, tra un piano e l’altro, a prendersi il tempo di osservare l’erba stentata e giallastra sopra il garage interrato, le grandi piante sottratte alla loro vita precedente alla costruzione del residence e rimaste per sempre incastrate nel piccolo prato, insieme a sobri e misurati cespugli di malva e forsizia, tra le due ali di condominio di terrazzini e di finestre occhiute. Lei, da dietro, immaginava il suo sguardo attento e distante insieme, il mento alto a guardare oltre la prima fila di piante, fino ai margini del prato e l’inizio del parcheggio e degli altri condomini in fondo, un malinconico turista della città.

Lo stesso sguardo, lontano, assorto e svagato insieme, di quella foto al mare, l’anno prima, di profilo, gli occhi chiari, segreti, nascosti dall’aggrottarsi della fronte al sole, un sorriso vago, al nulla, e dietro, un orizzonte di sabbia chiara e di mare e cielo confusi d’azzurro.
Poi, lui si girava, con un finto sospiro le gettava una nitida occhiata sorridente, e scendeva lentamente al piano di sotto.

LA STANZA (si riparte)

5 febbraio 2012

C’è un bel silenzio in casa. Le cose al loro posto, quiete. Fuori il sole tramonta piano, arancione sulle pareti delle case in fondo al giardino. La luce si fa buio.

Amarti è farti entrare in una stanza in cui le pareti sono di rete leggera e luccicante, fili delicati, sottilissimi e traslucenti di ragnatela. Il pavimento è un ricamo lieve, intrecciato di trame luminose, antiche, complesse e fragili: camminarci, anche con passo leggero, ma incauto, può sfogliarle in frammenti di dispiacere, acuto come una scheggia nella pelle, senza fine e senza respiro come il momento del dolore. Intorno, un paesaggio di luce nitida, sospesa e stupita. Attenta.

Lo stesso passo, ma per chissà quale strada, io non lo so, ti giuro, è invece argento vivo di felicità.

Farmi del male è l’ultima cosa che vuoi, lo so. Che fare, allora? Non so.

C’è da fare. Sì, comunque.

PI SA PI A PI SA PI A PI SA PI A !!!!!

31 Maggio 2011

Ho guardato lo speciale su rai uno alle tre e mezza e ho cominciato a crescere di tre centimetri. Ho anche cominciato a respirare come se avessi improvvisamente tre polmoni. Ho mandato solennemente a fanculo con grandi gesti Cicchitto che si arrampicava sulle pareti dello studio per spiegare che non aveva davvero vinto la sinistra, e quell’altro pezzodicacca dei Responsabili che diceva che Pisapia non era un candidato del Pd. Ho continuato saltando davanti alla finestra. 
Mi sono lavata i capelli, mi sono fatta bella e sorridendo al mondo intero, sono uscita a comprarmi un vestitino corto. Sono uscita a mangiare la pizza di fine corso con il gruppo del lunedì e ho parlato tutta la sera. Il mondo è bello, la gente è simpatica, io sono strafiga e tutto andrà per il meglio.
Non riesco a immaginare cosa può aver provato la gente il 25 aprile del ‘45.

ANGELO CUSTODE

20 marzo 2011

Questo è un vecchio post, già pubblicato qualche anno fa.
Lo rimetto qui per tutti quelli, e sono tanti intorno al mondo, in questo momento, che hanno bisogno di un angelo custode.

Io sarei una che crede agli angeli. Non si capisce bene il perché, come per molte altre cose della mia vita, ma sta di fatto che, anche senza ammetterlo del tutto, ed in fondo è la prima volta che lo faccio, gli angeli per me ci sono.
Dico ci sono, perché dire esistono sarebbe ben diverso: esistono presuppone un credo, ci sono mi suona più improvvisato e meno impegnativo, ed in fondo più adatto ad una che, come me, non crede molto in nulla.
Ma insomma, ho deciso di mollare un po’le maglie del controllo, e ho pensato che, nella mia vita, potrei anche concedermi una bizzarria così poco razionale.
Sarà che da piccola, avevo, attaccato al muro, a fianco del mio letto, un angiolino di ceramica rosa con un bel faccino alla Beato Angelico, un’aria calma ed eterna e una lanterna in mano con dentro una lucina che accendevo prima di entrare nel letto. Sì, perché io entravo, ed entro, nel letto, come uno che entra in una barca, alzando prima una gamba e poi l’altra, e salendoci sopra, per poi scivolare, come un bruco, sotto le coperte senza muoverle.
Da piccola quindi, accendevo la lucina dell’angelo calmo ed eterno ed entravo nel letto barca, solo dopo averci ben guardato sotto, facendomi coraggio e piegandomi a metà, con il fiato sospeso e  con un certo terrore, a scrutare il parquet immobile, innocuo e in penombra.
Fino a che non mi addormentavo poi, facevo ben attenzione a non lasciare sporgere una mano o un piede dal letto, perché ero sicura, e già i miei occhi lo vedevano nel buio, e mi facevano trattenere il respiro, e fermare il cuore, che una mano enorme, fortissima, pelosa e verde di alghe di palude o nera di tenebre, sarebbe uscita fulminea da sotto il letto per afferrarmi per il polso o la caviglia in una morsa potentissima per trascinarmi poi giù giù giù giù e giù, lontano e per sempre, in quell’abisso buio che si apriva tutte le notti sotto il mio letto tappezzato di quell’orribile raso, fortemente voluto da mia madre per la cameretta dell’unica figlia femmina, a rose rosse, gialle e rosa, e per non farmi mai più risalire.
Invece, l’angelo calmo e sereno mi proteggeva. Mi proteggeva sicuramente anche durante la notte, quando, incosciente e inconsapevole, muovendomi nel sonno, avrei abbandonato la mia posizione di sicurezza, girata sul fianco destro, vigile ed attenta, occhi aperti nel buio, verso la porta semiaperta, a controllare che un pazzo assassino non entrasse come una furia brandendo alto un coltello luccicante, pronto a piantarmelo nella schiena, non appena mi fossi girata verso il muro. Chissà come, invece, l’angelo cacciava via tutti quei mostri. Forse creava un campo magnetico, sicuro e protetto, un golfo riparato dove, silenzioso e tranquillo, galleggiava il mio letto nel debole chiarore della sua lucina.
 
Un campo magnetico era riuscito di sicuro a crearlo anche quel giorno di maggio di venti e più anni fa in cui, in quattro su una 127, per uno scherzo finito male, facemmo testa coda sulla Callalta, e sfiorando una decina di auto che correvano nel traffico di una domenica sera, riuscimmo a passare tra due platani e a planare senza capottare in un fosso miracolosamente asciutto. Gli unici miei danni furono una gran botta alla tempia e la sfilacciatura di una fettina laterale di lingua rimasta presa tra quattro molari.
Quando ripresi i sensi, dopo aver visto dai finestrini il mondo volarmi intorno e diventare nero in un attimo, riuscii perfino ad uscire dal sedile dietro e a risalire da sola dal fosso, arrampicandomi ostinatamente ai ciuffi d’erba verde della riva, aiutata da un infermiere bianco e sorridente dell’ambulanza che vedevo lontana, irraggiungibile, parcheggiata sul ciglio della strada. Ma sono sicura che non era un infermiere. Era il mio angelo, che silenzioso e attento come sempre, si complimentava con me, e mi incitava con un sorriso. Poi, mentre al pronto soccorso aspettavamo le radiografie, forse andò a bersi una birra con gli angeli degli altri tre. Birra meritata, visto che in quattro ci procurammo solo un taglio da tre punti al pronto soccorso.
Good job, direbbero in america.
Quante ne ha viste poi, in questi anni. Almeno due voli in moto, si andava piano però, poi un altro paio di incidenti sicuramente mortali, che mortali però non furono, e non diventarono neanche incidenti, (ma quella golf targata germania me la ricordo benissimo mentre ci sfrecciava a fianco in galleria dopo un sorpasso rientrato, e pure il camion alla fine della retromarcia nella stradina in toscana), e una curva presa troppo larga dopo una cena in collina.
Il bello è che non ero mai io alla guida, e il mio angelo doveva essere assai incazzato e avere in più ottimi rapporti con i suoi colleghi.
Cosa manca? Ah beh, forse quella volta che ho fatto autostop a quindici anni, quella sera nella metropolitana di Londra, i vari maniaci, pedofili per fortuna solo esibizionisti, e alla fine innocui, incontrati ai giardinetti da bambina e poi insomma, mettiamoci pure il giro del mondo, via.
In fondo con tutti gli aerei e autobus e metropolitane che ho preso, e quartieri sconosciuti e ostelli e strade mai viste, e onde australiane e traghetti neozelandesi, e treni, e vie deserte, avrà avuto il suo daffare anche se io non mi sono accorta di nulla.
Ci metterei poi anche qualche periodo in cui entravo in casa e, con il cappotto addosso, mi lasciavo cadere sul divano a guardare il muro, o un paio di sere in cui mi sono fermata nell’ingresso e, lentamente, senza credere che succedesse davvero, sono scivolata piangendo lungo il muro. Di sicuro, dopo un po’è stato lui, il mio angelo, a farmi alzare, a lavarmi le mani piano piano come una convalescente, guardando l’acqua scorrere dal rubinetto come fosse la prima volta, e a lavarmi la faccia senza guardarmi nello specchio. O forse sono stata io, pensando a lui, o lui, pensando a me. O tutti e due insieme, così insieme che ormai non sappiamo neanche più dove comincia l’angelo e dove finisco io, tanto siamo abituati a lavorare fianco a fianco e ad arrangiarci.
Come direbbero gli americani, siamo una bella squadra. Good job, angelo.

SESSO AL MARTEDI’ GRASSO

9 marzo 2011

La “Waka Waka” di Shakira va un casino tra i carri mascherati di questo martedì grasso.
Cercavo di arrivare all’agenzia pratiche auto (sì, ho fatto il gesto epocale: ho comprato l’auto nuova) e mi sono trovata tra la folla moderatamente festante, anzi quasi leggermente perplessa, che assisteva al passaggio dei carri. Il carro dell’Allegra compagnia di Maserada sul Piave in quel momento cercava di farsi largo per le strade del centro, ondeggiando plasticose canne d’organo variopinte eruttanti coriandoli sulla curva a gomito che sbocca in Corso del Popolo.
Era preceduto, appunto, dai membri festanti dell’Allegra compagnia: una ventina di quarantenni, qualcuno sospetto anche cinquantenne, abbigliati a mo’di note musicali che, illividiti dal freddo dopo tre orette di sfilata, il viso serio e accigliato da chi me l’ha fatto fare e maledetta quella volta che Bepi mi ha portato alla riunione quest’inverno che te assicuro che xe pien de fighe, intrecciavano coreografie danzanti sulle note di musicacce disco.
Tre passetti a destra, tre passetti a sinistra, una giravolta, chiudi le braccia, stendi le braccia, una alla volta, prima la destra, poi la sinistra, un battimano e via. Sulla scia delle scuole di balli sudamericani (dio quanto li odio), tutti dietro al gran beccatore, il maestro fustacchione bicipitato: a la derecha a la izquierda, un pochito de qua e un pochito de là.
Dietro arrivava il carro degli Amici di San Giuseppe che sparava “Mamma mia” degli Abba. Sponsor la carrozzeria Bettiol Denis. Altra pattuglia di quarantenni (ma le ragazzine dove sono sparite, non ambiscono più a fare le majorettes?): meduse violette, polipastre verdognole sovrappeso, il gallo del quartiere in versione Capitan Findus, che con due manacce da muratore guidava le danze e il trattore che trainava il carro.
Parte la “Waka Waka” e il ragazzo nero, presunto ghanese (è insieme a Adjatay, il ghanese che ho trovato nel gruppo di alfabetizzazione agli stranieri a scuola) che assiste alla sfilata con le mani in tasca e lo sguardo un po’assente sul marciapiede di fronte, accenna un sensualissimo movimento d’anca. Gli è partito naturale al suono della “Waka Waka”, ma subito si blocca. Non è posto questo per ballare, anche se la musica è pompata a tutto volume, mica siamo al sambodromo o in piazza a Accra o dove diavolo ballano i ghanesi. Non si balla sulla pubblica via di una cittadina del nord est, tra uomini nativi imbacchettati che non saprebbero muovere il bacino neanche sotto ingiunzione del fisioterapista, ora retrofletta su!, e donne che volentieri si lancerebbero in ancheggiamenti lascivi, retroflettendo di gusto, in stile velina intorno al palo della lap dance, ma mai per strada, o meglio, in piazza.
E così corre via l’ennesimo Carnevale, le polipesse verdastre ai lati del carro degli Amici di San Giuseppe, imbottite di maglioni sotto i costumi che tirano sui fianchi, cercano di sculettare come le mulatte del carnevale di Rio e accennano con le braccia il famoso gesto di Shakira: mani unite all’altezza del petto in un su e giù vagamente evocativo di altro movimento sussultorio. Il risultato è così goffo che mi vergogno per loro.
Non commento l’ultimo carro che avanza: una enorme biga azzurra carica di fulmini e saette simil-raggi di fuoco e sovastata da un truce sole giallo e fiammeggiante. Titolo dell’opera a grandi lettere sul cartello davanti al trattore che traina il carro, ma solo per chi non avesse capito il senso dell’opera: Il ritorno di Ben Hur? Il carro del sole? E’ tornata la primavera? No, la risposta esatta è: “Non ci resta che la biga”.
Tutto intorno, il pubblico da sfilata dei carri a carnevale o da fiera degli osei o da autoscontri alla sagra. Quelli che ti chiedi dove stiano nascosti tutto il resto dell’anno: branchi di ragazzini magrissimi e torvi, mani in tasca, jeans strettissimi e ciuffi abnormi, schiere di ragazzette fumanti, spavalde e urlanti che si tengono a manina, tipacci rudi in anfibio e passo montanaro, tris di punk: lei grassissima con le calze smagliate e la minigonna, lui altissimo un po’ gay, l’amico con la cresta viola, sette orecchini per orecchio e un po’ ingobbito, coppiette di emo pallidi e depressi. Insomma tutto l’atteggiarsi della presunta contemporaneità giovanile, ritenuto ancora trendy nei paesi, ma definitivamente out per il capoluogo.
Dio come sono snob.

ODIO

24 febbraio 2011

Certo che bisogna davvero avere la faccia come il culo per dire che finalmente il vento della democrazia sta spirando anche tra i giovani libici quando solo qualche mese fa ci si prostava di fronte all’amico Gheddafi baciandogli le mani, vendendo il culo, appunto, ma non solo il proprio, ma anche degli italiani tutti, per assicurarsi cosa? petrolio e affari e soldi e cosa?
E quell’altra: l’orribile essere onnimezzobustante onorevola Anna Maria Bernini, insopportabile nella sua esasperante, monotonica, vis oratoria, resa ancora più veemente dal successo ottenuto nelle ultime settimane in qualità di difensora al di là di ogni senso del ridicolo del suo Principale, benché immobilizzata dal sottonaso in giù dai labbroni siliconici e dal sottonaso in su dal botulino che le rende lo sguardo fisso e inespressivo come quello di una lepre abbagliata in mezzo alla strada. Qualcuno ha detto all’essere abominevole: quella sa il fatto suo, mandiamola a tutti i dibattiti. E così è. E gli organizzatori di dibattiti tutti a farla parlare.
E un altro a caso: quella vecchia baldracca romana, Fabrizio Cicchitto, l’aria mezza storta e schifata da mascherone di pietra di chi tante ne ha viste e tutte le ha scampate ma tanto chissenefrega, sorrisetto sbiego e sopracciglio inarcato, sempre pronto a fermarsi lungo qualche via della capitale, a elargire ai microfoni, frasette strascicate di accomodamento, di vituperio contenuto che non si sa mai, di difesa della situazione odierna, di accordo, intesa, transazione, e poi domani, se serve, di difesa della situazione di rottura, divergenza, dissidio.
E vogliamo parlare dell’inutile foga bugiarda di quell’altro essere, Gasparri, della sua aggressività ignorante e arrogante, la voce velata e arrochita sempre tesa non al voler comunicare o dire o spiegare, ma al voler dimostrare qualcosa all’interlocutore, all’altro, chiunque sia, inventando, prevaricando, aggirando, rendendosi evidente personificazione del farabutto faccia di bronzo.
Anime nere.
E poi gli altri, quelli che sono macchiette, di cui non riesci neanche a percepire una minima grandezza, neanche nell’audacia, nella perseveranza, nell’intelligenza subdola, nella tenacia della volontà di arricchirsi, di diventare famosi, di farsi i cazzi propri, ma di cui senti solo l’evidente bassezza, la meschinità, la povertà umana.
 
Ero a Padova il 7 giugno dell’84. Uscivo dall’Università e passai per caso per Piazza della Frutta. Era periodo di elezioni, c’era un comizio, uno dei tanti, e la piazza affollatissima. Parlava Berlinguer. Una figura lontana, i capelli neri e la camicia bianca sul palco, in fondo alla piazza. Mi fermai un attimo, ma avevo il treno da prendere e corsi via. Lui stava ancora parlando, ma era l’ultima volta.

Devo contenermi. Accendo la tivu e provo dei sentimenti di odio intollerabili.

berlinguer