Il questurino in borghese, faccia larga meridionale, labbroni sensuali, occhi bovini, basette e stempiatura con riporto, e collanina d’oro al collo con un unico grazioso pendente, una piccola manetta, fissando lo schermo del computer, digita con i ditoni, un tasto alla volta, il nome del mio articolo ventisei, un americano, ingegnere elettronico di Harlem, New York, che, in qualità di interprete, accompagno all’Ufficio Stranieri.
Il suo collega, in divisa di una taglia in meno, biondiccio, occhi chiari vicini, faccia lunga e stretta da vera razza Piave, gli sta accanto e gli ricorda che gli articoli ventisei hanno un’altra procedura.
Chiede al mio articolo ventisei: sportivo? Brad mi guarda interrogativo. No, rispondo, è un ingegnere elettronico, lavora alla xxxxxxx, qui a Venezia.
Quando siamo finalmente entrati nei locali dell’Ufficio Stranieri, dopo un’attesa di un’oretta, l’ora dell’appuntamento era le 7 e 34, e sono appena le otto e mezza, l’altro questurino, quello con i guanti verdi di lattice, che gli ha preso le impronte digitali per fare la richiesta del permesso di soggiorno, appena lo ha visto, lo ha chiamato Obama. Brad, che è nero, marrone chiaro, e assomiglia a Obama come io assomiglio a Angela Merkel, nel senso che siamo tutte e due bianche, ha alzato il pollice destro, dicendo yess. Il questurino ha sorriso e si è sentito figo.
Anch’io ho fatto la simpatica, sorridendo al suo yesssamerican e così io e Brad, dopo il primo passaggio di documenti, un paio di firme, e un altro paio di battute, ci siamo guadagnati il secondo passaggio, nella seconda stanza, senza neanche dovere tornare fuori in attesa della seconda chiamata, come di solito prevede la procedura, al freddo, nel vicolo antistante l’Ufficio Stranieri, ad aspettare, in piedi, tra le transenne, i due cessi chimici, un paio di file di sedie di plastica marrone luride accostate alle pareti, un container generosamente donato dalla ditta yyyyyyyyy per le attese delle famiglie con minori nelle lunghe mattine di inverno, in mezzo a decine di cinesi, ghanesi, ucraini, marocchini, ivoriani, burkinafasesi, indiani, pakistani, senegalesi.
Tutti preferibilmente accompagnati da bambini colorati, spaesati, piangenti, da anziane donne avvolte in scialli, da mogli nere, imponenti e silenziose, o attaccati alle transenne, impazienti, intimiditi, spaventati, scontrosi, incazzati, tutti con le orecchie tese, tesissime, per il timore di non riuscire a sentire il proprio nome urlato dal questurino di turno sulla porta dell’Ufficio Stranieri, con accento vuoi napoletano, vuoi siciliano, vuoi veneto.
Sarebbe anche divertente far caso alle varie pronunce di nomi cinesi: Lin Pin Tong, senegalesi: Ismael qualcosa, russi: Vladimir qualcos’altro e al sorrisetto o la noncuranza sciatta con cui vengono pronunciati velocemente, come se tutte le persone che sono convenute lì alle sette del mattino, sotto una pioggerella insistente, in un vicolo sporco, fossero lì per ridere dei loro nomi e cognomi urlati da un funzionario di polizia, e non per avere in mano, finalmente, dopo mesi di attesa, viaggi infiniti, documenti sgualciti di tutti i tipi tra le mani, andirivieni e code tra uffici postali e questure e prefetture e comuni, un permesso di soggiorno.
Invece per fortuna, stamattina, ci va di lusso a me e al mio articolo ventisei, che indica gli stranieri in possesso di permesso di lavoro come dirigente o personale altamente specializzato. Dobbiamo solo fare il secondo passaggio, in una stanza con quattro scrivanie, una ad ogni angolo, dove, stando in piedi, come questuanti, davanti al funzionario di turno, a noi tocca catenina con manetta, ognuno parla, urla per farsi sentire, dei fatti suoi, interpellato con tono, urlato, tra l’amichevole e il divertito. Lo stesso tono noncurante dell’infermiere all’anziano: e tu nonno, hai già fatto pipì? Del medico con l’ammalato, del cittadino di diritto con lo straniero. Lo stesso tono di chiunque, nel suo piccolo, si senta investito di un suo piccolo potere, e ami esercitarlo. Con accondiscendenza, bonomia, con l’uso del tu al posto del lei. La parola urlata, come se invece che anziano, malato o straniero, uno fosse sordo e rincoglionito.
Così veniamo a sapere che lei, alla mia destra è ivoriana, dov’è nata lei?? Abi.. Abi di gian?!? Lui invece è dal Burkina Faso, e tu dove abiti?e da quanto lavori qui? Che la cinese dietro di me è alta uno e sessanta, che lui prima ha lavorato a Milano e adesso hanno deciso di venire qui.
Una mezzoretta in piedi di fronte alla scrivania di Manetta, tra firme, timbri, controlli di passaporto, sfogliamento di documenti, richieste a mezza voce, altre impronte, altre verifiche e finalmente si va.
Il permesso di soggiorno, che culo, forse con la nuova procedura arriva solo fra trenta, quaranta giorni. E si figuri che c’è chi aspetta da più di un anno. Che fortunelli.
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