ULURU, AYERS ROCK

Altra lettura domenicale dal giro del mondo.
Con questo caldo mi sembra anche adatta.
L’Uluru, la montagna sacra degli Aborigeni australiani. Un monolite di roccia rossa piantato in mezzo ad un immenso deserto di terra rossa.
Insieme all’azzurro scintillante e vibrante della baia di Sydney, il ricordo più emozionante che ho dell’Australia.

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Un gruppo di una ventina di turisti si materializza in distanza mentre avanza lentamente nell’aria tremolante di calura lungo il sentiero di sabbia rossa alla base dell’Uluru, il monolite sacro agli Aborigeni ad Ayers Rock.
Sono le quattro del pomeriggio, il calore è quello di un forno spalancato su questa pianura infuocata: secco, immobile ed implacabile. I turisti si avvicinano a passi incerti e li riconosco per il gruppo di anziani americani che avevo incrociato in aeroporto, tutti con in testa cappello australiano a larghe tese, retina antimosche e cartellino al collo con il nome: Judy, Jack, Ed, Carol.
Li guardo e penso che qualcuno a breve stramazzerà ai bordi del sentiero colpito da infarto. Questa mattina, all’entrata al parco nazionale, il termometro segnava i 42 gradi e la direzione del parco proibiva la scalata al monolite per avverse condizioni atmosferiche a quei pochi pazzi che ancora avessero voglia di tentarla.
Gli Aborigeni, padroni di queste terre, che gestiscono il parco insieme al Governo Australiano, in una sorta di amministrazione condivisa, chiedono di non arrampicarsi sulla montagna che loro ritengono sacra, ma molti ignorano l’invito.DSC01847
La guida che conduce il mio tour sta spiegando in australiano stretto il significato dei graffiti che ci ha portato a vedere sotto una sorta di volta disegnata dalla natura nella roccia rossa dell’Uluru.

Il turista in visita alle zone dei Northern Territory, ma anche gli abitanti, si riconoscono da quello che in lontananza sembra un continuo gesticolare, ma che in realtà è il vano tentativo di allontanare le mosche. Implacabili, inarrestabili, inafferrabili, come tutte le mosche, si posano a venti, trenta, quaranta alla volta in faccia, sulle palpebre, dietro gli occhiali, intorno alla bocca, nelle orecchie, sulle braccia, sulla schiena, sul collo. Sembrano preferire le zone sudate, ed, infatti, gli Aborigeni, che sono gli unici a non scacciarle, immobili, sostengono che le mosche facciano in realtà un’operazione di pulizia. I turisti asiatici sono quelli che apparentemente meno sopportano questa invasione, si agitano in continuazione e sono tutti muniti di retina sopra il cappello. Io cerco di resistere, ma alla fine soccombo alla retina soffocante.
La guida sostiene che è così solo durante l’estate, ma che da aprile in poi le rane se le mangiano. Ma intanto è solo febbraio.

L’Uluru intanto se ne sta lì, misterioso, stagliato contro il cielo blu, immoto, rosso, massiccio, solcato di strani disegni e formazioni rocciose a cui gli Aborigeni hanno dato significati sacri e su cui hanno costruito miti e leggende. Più prosaicamente le guide invece, come tutte le guide e le DSC01851aziende per il turismo in giro per il mondo, hanno dato dei nomi alle zone più facilmente raggiungibili ed identificabili dai turisti, perché quando un paesaggio naturale o un sito hanno un nome, e questo nome è riportato su una guida o su un depliant, diventa una destinazione degna di valore e degna di essere visitata. Così, come per esistere agli occhi del mondo come persona devi andare in televisione, per esistere come luogo devi avere un nome ed essere citato nelle guide turistiche. E così i turisti fanno i chilometri per vedere la formazione rocciosa che una guida ha definito “la bocca di Mick Jagger”, o “il serpente” o “la testa del cavallo”, e per dire: "eh, beh, sì, in effetti sembra proprio la bocca di Mick Jagger".
Ma lei, la montagna sacra, se ne sta lì, rossa di fuoco, inafferrabile nei suoi segreti, senza voce e senza volto per chi non la sa guardare, e indifferente osserva dall’alto questo circo allestito quotidianamente ai suoi piedi, fatto di negozi di souvenir, di centri informativi sulla cultura aborigena, di resort da centinaia di camere con tutti i comfort per i turisti più danarosi, di tour organizzati da Alice Springs tutto compreso per i turisti meno abbienti, di campeggi estemporanei alle sue falde nel deserto per i turisti indipendenti ma organizzati, di passeggiate delimitate da transenne, di percorsi ferrati sulle sue sacre volute per gli scalatori della domenica indifferenti alla solennità del luogo, ma desiderosi di portarsi a casa l’impresa.
La montagna sacra se ne sta lì, immobile, cupa, sorda, incendiata dal sole anche quando al tramonto si scatena l’ultima follia e migliaia di turisti accaldati e affamati, portati da decine di pullman, si accalcano a qualche centinaio di metri su un belvedere, a consumare tra le mosche DSC01872assatanate la cena con tipico barbecue australiano, dolce, gelato e bicchiere di champagne ghiacciato incluso, preparati in tutta fretta da decine di camerieri ed autisti iperorganizzati. E centinaia di macchine fotografiche scatteranno migliaia di fotografie, illudendosi di portare a casa qualcosa del suo mistero, di possedere finalmente Ayers Rock, l’Uluru Aborigeno, il cuore rosso dell’Australia.

Siamo arrivati qui stamattina, dopo aver passato la notte al Mt.Ebenezer Roadhouse, un posto di ristoro situato circa a meta’ strada tra Alice Springs e Ayers Rock. Tutte le corriere e i tour in transito per queste zone fanno una sosta al Mt.Ebenezer: una sorta di trattoria da pioneri del deserto, (dove ci verrà servito pesce surgelato), con annessa una piccola rivendita di artigianato gestita da un gruppo di Aborigeni della zona, e una decina di camere per chi, come noi, passa la notte qui.
Il Mt.Ebenezer è gestito da una famiglia australiana. Il padre cappello da cowboy australe, calzoncini corti e stivaletti da deserto, si divide tra la clientela al bar e altre attività, la madre cucina il pesce del deserto per i clienti del ristorante. Una delle figlie che aiuta al bar, un’adolescente cicciottella, racconta entusiasta alla nostra guida che sabato sera con le amiche andrà al Mc Donald. Niente di cui meravigliarsi, se non fosse ad un quattrocento chilometri da qui, ma a questa ragazzina evidentemente ottocento chilometri tra andata e ritorno, per una serata in città non sembrano gran cosa.DSC01725
Fuori, uscendo sul piazzale, una volta partite le corriere degli ultimi turisti, il nulla a perdita d’occhio: il deserto rosso australiano, ricoperto di piccoli arbusti e alberelli per centinaia e centinaia di chilometri. Prima della cena tento una doccia che risulta impossibile: l’acqua c’è, ma esce rovente sia dal rubinetto dell’acqua fredda che da quello dell’acqua calda. Solo al mattino presto, prima che si alzi il sole, diventerà tiepida.
Quando scende la sera, il calore infernale del giorno comincia ad attenuarsi, il sole scende lontano in un’esplosione di rossi, gialli e arancioni che sembrano voler colorare il mondo intero. Poi, sparito l’ultimo spicchio arancione di fuoco all’orizzonte, come nei presepi, un cielo indaco comincia a punteggiarsi di stelle luminosissime e brillanti, la Croce del Sud segna il cammino, le mosche cominciano ad allontanarsi e il cielo sempre più nero rivela un universo di stelle.
I rari camionisti che approdano qui, uscendo improvvisamente dal buio, felici di ricongiungersi ad una piccola fetta di umanità persa in questo avamposto solitario, raccontano di qualche animale, canguri, emu o vacche, avvistato lungo la strada, e via radio (i cellulari qui non hanno campo), lo segnalano ad altri autisti vaganti nella notte. Tutti i mezzi hanno dei grossi paraurti per proteggere il veicolo in caso di scontro con qualche animale.
Quando riparte l’ultimo camion, sulla strada seguo fino all’ultimo le luci di posizione che vengono a poco a poco inghiottite dalla notte.
Poi, nel nero di velluto mi perdo tra le stelle sconosciute dell’emisfero australe, così basse sull’orizzonte da poterle toccare.
Solo il rumore sordo del gruppo elettrogeno del motel mi ricorda che siamo sulla terra.

3 Risposte to “ULURU, AYERS ROCK”

  1. effettopauli Says:

    Voglio essere la prima:

    “Picnic ad Ayers Rock”.

  2. cf05103025 Says:

    Bello bello, Dip,
    però te hai aguzzato la vista nella notte per vedere il grande Kangoo?
    Dicono che compaia solo ai cattivi, però, perché è un cangurone vendicatore con gli occhi fosforescenti e si vede di notte.
    Un mio amico, istruttore di yoga, voleva trascinarmi in un ashram nel vicinanze di Alice Spring, colla promessa che mi avrebbe fatto salire sull’Ayersrock e poi mi avrebbe fatto spiegare i graffiti di lì sotto da un certo Jack Kokaboorra, suo amico sciamano aborigeno.
    Io ci ho detto di no, un po’ per paura dei kakatua, un po’ perché era là, dietro il globo,
    cioè agli antipodi.
    E io ho anche paura degli antipodi, perchè hanno i piedi al posto della testa.
    Però uno mi ha detto che ci sono anche qui.
    Ah, beh, ho detto io.
    Ecco.
    MarioB.

  3. anonimo Says:

    Ciao, complimenti per il tuo racconto e le tue belle foto. L'ho linkato su Trivago cosicchè molti viaggiatori possano usufruire della tua esperienza! GRAZIE . Questo è il Link:http://www.trivago.it/ayers-rock-uluru-73931/monumento-naturale/uluru—kata-tjuta-national-park-92485/recensione-e484298 

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